Una delle prime poesie che ho scritto sul mio lavoro, in uno di quei (periodici, ciclici) momenti di sconforto che agli inizi mi prendevano quando mettevo a fuoco la distanza, lo scarto esistente tra i valori e i principi per i quali lottavo e i messaggi socialmente imposti e/o approvati.
Come lasciamo andare
le mani dei bambini
come offriamo doni facili
in cambio del tempo
per curarci le ansie e la carriera
e poi come li perdiamo i ragazzini
nel fondo delle bottiglie
e degli schermi luminosi
Che non sappiamo parlare
nei nostri discorsi di malati
e di pubblicitari
e negli shop on line
o negli uffici reclami
siamo poi sempre in sala d’attesa
– ché accontentarsi è peccato
e la fretta fa arrivare
Ma quanto è facile la moda
comprare la sicurezza
anche nei supermercati
e scordare dispiaceri e colpe
e insonnie e solitudini
che non prendono like
– meno facile è dire io
senza il pubblico in tasca
E come mangiamo poi
ma come ci mangiano
gli scarti gli eccessi le luci
e come vomitiamo poi
nelle rabbie di tendenza
o davanti ai linciaggi in tv
Come ci battiamo il petto
nel tracciare confini
Che non sappiamo più pregare
col nostro rifiuto di fermarci
Non ci inginocchiamo più
neanche di fronte al cielo
o ai risvegli crudeli
delle madri e degli infermieri
dei migranti che han passato il mare
delle puttane offese e dei bimbi soli
E quanto è difficile non disperare
davanti al volto di Giona del mondo
– gonfio d’amore e disperazioni –
quanto è difficile consolare
fare crescere ricini sotto il sole
indossare ogni giorno
questo stupido feroce lavoro