Questo articolo costituisce la trascrizione, più o meno fedele, dell'episodio 2 del mio podcast Nel frattempo
Cos’è una supervisione educativa? A chi è rivolta? In cosa differisce da una consulenza?
Nell’episodio uno non ho specificato che le consulenze educative possono essere rivolte anche ai professionisti, non solo ai genitori.
Nei giorni scorsi, mi sono chiesta quale potrebbe essere una definizione breve, semplice ed efficace di “consulenza”. Ripensando in particolare alle consulenze di cui ho fruito e a quello che hanno rappresentato per me, sono arrivata alla conclusione che una consulenza è una sorta di assistenza. Infatti, nel corso di una consulenza si danno delle indicazioni, per esempio informazioni utili, suggerimenti per la creazione di progetti, spunti per la definizione di obiettivi o di strategie e così via.
Quindi: il cliente, chiamiamolo così, mi sottopone una situazione specifica, mi fa delle domande, e io gli porto quello che è il mio parere, gli rispondo esprimendogli la mia idea. Poi ovviamente lui delle mie indicazioni può farne ciò quel vuole: può seguirle, può rigettarle in toto, può accoglierle solo in parte.
Sintetizzando, possiamo dire che un professionista chiede una consulenza a un altro professionista quando desidera avere la sua opinione riguardo a una certa situazione.
La supervisione è qualcosa di molto diverso.
Talvolta sentiamo usare in modo quasi intercambiabile i termini “consulenza” e “supervisione”, che però in realtà indicano due prestazioni lavorative differenti, che hanno obiettivi e finalità differenti e che nascono da bisogni e richieste differenti.
Nei giorni scorsi mi sono ovviamente interrogata anche su quale sarebbe potuta essere una definizione efficace di “supervisione”. Più che una definizione, però, mi è venuta in mente un’immagine, una metafora: a supervisione, per come la intendo io, è un tagliando! Sì, come un tagliando dell'auto.
Leggiamo Wikipedia: “Il tagliando è una verifica periodica delle componenti di un’auto volta a mantenere o ripristinare la massima efficienza meccanica, compatibilmente con lo stato di usura complessivo”. E poi: “I tagliandi regolari possono prevenire guasti e malfunzionamenti rilevanti dovuti al deterioramento, che richiederebbero riparazioni straordinarie”.
Quella del tagliando è una metafora davvero calzante. Innanzitutto, perché per chi la chiede la supervisione costituisce uno spazio di verifica professionale. E poi perché beneficiare di una supervisione con una certa frequenza e una certa regolarità può prevenire tanti danni. Danni che possono riguardare il lavoro inteso come operato, quindi ragionamenti, scelte, azioni, tutto ciò che viene messo in campo, oppure danni che possono riguardare la parte più “interiore” del professionista, quindi la sua motivazione, le emozioni e i vissuti legati al lavoro e purtroppo, alle volte, la salute.
E a questo proposito ci tengo a dirvi che anche io mi faccio regolarmente supervisionare, circa una volta al mese. (Lo dichiaro esplicitamente perché mi sembra che spesso quando si inizia a lavorare in proprio, quando si avvia la libera professione, si tenda – per risparmiare un po’ sulle spese, che in effetti sono tante – a rinunciare alle supervisioni. Io non sono d’accordo, per tanti motivi, ma anche perché, se ragioniamo sul lungo periodo, ci accorgiamo che in realtà questa rinuncia non costituisce un risparmio.)
Ora tornando al confronto tra i due servizi: nel corso di una supervisione, di fronte al cliente o ai clienti (le supervisioni posso essere sia individuali sia di gruppo) che mi presentano la situazione, il mio compito è quello di stimolare il pensiero critico, la profondità di analisi, la riflessività.
Quindi, il cliente che mi chiede una supervisione ha bisogni e aspettative diverse rispetto al cliente che mi chiede una consulenza. Nella consulenza il desiderio del cliente è quello di avere il mio punto di vista, la mia opinione, rispetto a una certa questione. Nella supervisione, invece, il cliente si aspetta di essere accompagnato in un processo di pensiero, di analisi, di verifica, come dicevamo prima.
Esistono diverse tipologie di supervisioni. Io svolgo supervisioni metodologiche e supervisioni sui casi, non mi occupo di dinamiche di gruppo ma, quando mi viene chiesto, sono sempre contenta di dedicarmi anche a tematiche più identitarie, quindi a riflessioni inerenti il ruolo dell’educatore, la funzione, i compiti etc.
Le supervisioni metodologiche sono centrate sulla metodologia e sul metodo di lavoro, mentre le supervisioni sui casi riguardano un caso (o più casi) in particolare, passando in rassegna tutto il percorso di presa in carico.
Quando mi viene richiesta una supervisione, qualsiasi sia la tipologia, chiedo sempre di prepararmi uno scritto e di inviarmelo qualche giorno prima, in modo che io possa leggerlo (e magari anche rileggerlo) prima della supervisione stessa. Credo che lo scritto sia davvero un elemento centrale, per tutte e due le parti. Questo testo può essere il verbale di un incontro di spazio neutro o di una visita domiciliare o di un colloquio, può essere una pagina del diario di bordo di una comunità, può essere la ricostruzione di un percorso di presa in carico fino a quel momento, può essere una paginetta più confidenziale sul proprio concetto di educatore professionale. La stesura dello scritto segue un primo contatto tra me e il cliente, durante il quale abbiamo individuato la richiesta, e precede la supervisione, durante la quale mi appoggerò al testo, facendo delle domande, proponendo delle interpretazioni e soprattutto cercando di promuovere il pensiero critico.
Faccio una precisazione: poiché mi occupo in modo specifico di minori e famiglie, svolgo supervisioni solo per professionisti, enti e servizi che lavorano con bambini, adolescenti e/o le loro famiglie.

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